La forza dei ricordi

Non sono assolutamente un tipo esigente nel vestire. Mi piacciono indumenti comodi. Sono decisamente più pignolo quando si tratta di abbigliamento sportivo. Se mi muovo in bicicletta o indosso un paio di sci mi piace sentire bene gli strumenti che uso così come quando vado a pagaiare: la canoa la devo indossare al meglio altrimenti mi innervosisco per niente e quindi ho necessità di avere tutto al suo posto. Nella vita comune però non sono affezionato a qualche capo particolare, unico obiettivo è quello di sentirmi bene. Quando il tempo lo permette amo i pantaloni corti e le “pianele” come il buon Alviano Mesaroli ha ribattezzato le infradito.
Ci sono momenti però in cui devo cedere alla camicia e al pantalone lungo blu con mocassino o scarpetta elegante perché le esigenze del momento lo esigono. E’ qui che scatta il pezzo forte del mio guardaroba, che occupa nella sua interezza solo un’anta dell’armadio di camera da letto, e cioè il giubbotto in camoscio leggero che il mio povero papà mi lasciò in eredità ben trent’anni fa. Quanta storia ed emozioni sono nascosti attorno ad ogni bottone di questo magico, soffice, elegante capo d’abbigliamento. Mi ricordo che papà prima di convincersi sull’acquisto passò molto tempo nell’indecisione sul fare questa pazza e folle spesa rinunciando così al suo vecchio e affezionato predecessore, che comunque conservo. Il problema nasceva dal fatto che soli pochi mesi prima aveva fatto rifoderare e ripulire il suo vecchio giubbotto in pelle. Dopo queste operazioni, di per sé assai comuni, il povero indumento invece di migliorare si irrigidì ancora di più e il mio papà non si trovava così bene come un tempo. Eppure lui era molto affezionato a quel riparo che usava il sabato e la domenica - non erano ancora chiamati week-end - quando dismetteva con soddisfazione la divisa d’ordinanza della banca e cioè giacca e cravatta. Lui aveva una particolare ammirazione per quel giubbotto in pelle scamosciata con collo e polsini in maglia, che si era portato anche nel suo unico viaggio oltreoceano con la mamma a New York.
Ho sempre davanti a me la foto dei miei genitori che si fecero con il Capitol Hill alle spalle. Mamma a quei tempi, siamo nei primi anni ’70, portava la parrucca, si usava molto, una gonna a scacchi, le calze che le fecero vincere quel viaggio, un paio di scarpe comode, ma comunque con il tacco, un trench e la borsetta. Papà invece, che nelle foto sta alla sinistra della mamma, il contrario di come uso fare io con Amur, aveva il giubbotto mitico aperto e sotto il tipico maglioncino bordeaux e ovviamente anche lui un paio di scarpe sportive, come le chiamava lui, ma che per me sono più classiche di quelle che userei io per portare con l’abito elegante. Unica differenza risuolate in gomma.
Negli States i miei genitori ci sono andati grazie ad un concorso organizzato da una marca di collant che la mamma comprava in via IV Novembre dalla bustaia Gina. Gli americani entravano in quel tempo nel mercato italiano delle calze e così pensarono bene di promuoverle con questi premi. Tornarono a casa dopo due settimane e mi portarono una quantità infinita di chewingum, mentre la mamma aveva trovato degli orologini da signora, a sentire lei, a buon prezzo e molto preziosi. Solo uno me ne ricordo e cioè un orologio che all’apparenza sembrava un serpente e in cui spostando la testa dell’animale si poteva conoscere l’ora.
Insomma dopo tante indecisioni, ripensamenti e consulti con la mamma e mia sorella, si decise di affrontare la spesa. Mio papà era un tipo che aveva idee chiare e un principio basilare: “meglio fare una spesa una volta nella vita, ma che sia quella giusta”, dopo questa frase normalmente partiva con un elenco di cose acquistate da oltre vent’anni e più e che non davano segni di cedimento, anzi, miglioravano con il tempo! Quindi si partì alla ricerca per Verona per il grande acquisto: il nuovo giubbotto in pelle che doveva sostituire il vecchio. Le donne di casa perlustrarono ogni lato la città di Giulietta e Romeo, entrarono in ogni negozio che poteva vendere l’oggetto della ricerca. Rientrarono a casa con diversi capi, allora i negozi ti lasciavano in prova i capi d’abbigliamento tanto più se erano per gli uomini perché era scontato che l’uomo non avesse il tempo per andare personalmente a fare gli acquisti, ma ci pensassero le donne che nella famiglia avevano anche questa incombenza tra le tante altre. Cosa sarebbe il mondo senza le donne... casa mia sarebbe stato un disastro.
Rientrato a casa il mio papà si trovò in salotto una sorta di atelier privato con mamma e sorella che elogiavano ogni singolo capo come se fosse stata una creazione personale. Ci fu anche la sfilata e la relativa prova. No no non ci siamo, tutto da rifare, una giornata persa perché la mercanzia non riusciva a sostituire degnamente il vecchio e oramai malandato, ma amato giubbotto. Questi nuovi non avevano le caratteristiche del vecchio, ma soprattutto mio papà si era messo nell’ordine di idee che qualcosa non quadrasse per il verso giusto. Così, il capo famiglia, prese un’altra storica decisione e disse a gran voce: “sabato mattina vado al Duca d’Aosta e ci penso io”.

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Ora per chi non è di Verona il nome di per sé non dice nulla, ma è un negozio particolarmente famoso in via Mazzini che è aperto dal 1960 e fa parte di una catena di negozi nel Triveneto. Il primo a nascere fu a Venezia ben 109 anni fa.
Papà aveva poi praticamente svaligiato il nostro conto corrente perché non poteva certo arrivare al momento del pagamento e non trovarsi contante a sufficienza. Il mio papà non utilizzava il portafoglio, ma usava in sua vece un’agendina con mesi a fisarmonica della banca dove lavorava. Sotto la copertina ci infilava le 1.000 lire in carta che erano sempre nuove e fiammanti. Quando partimmo, io e lui in bicicletta, l’agendina era particolarmente rigonfia. Non poteva prende le cinque o le diecimila lire perché ovviamente non ci stavano nel prezioso contenitore che portava sempre con sé e che gli serviva anche per annotare le spese quotidiane e i vari appunti che potevano spaziare dalla matematica, ai pensieri di Socrate o a spunti grafici per qualche sua opera artistica.
Arrivammo in via Mazzini dopo essere stati a bere il caffè dalle sue sorelle, le mie zie, due sarte che hanno passato la loro vita in via dietro Liston, dove avevano casa e bottega. Il massimo della goliardia per “Zanze” e “Lola”, così erano state ribattezzate Angelina e Rosetta, arrivava alla domenica quando si concedevano l’aperitivo all’Olivo in piazza Bra dopo la messa ai Santissimi Apostoli. Normalmente bevevano un Aperol e aspettavano pazienti gli stuzzichini che di vola in volta le proponevano. Considerando il fatto che queste cibarie erano gratuite e a discrezione del buon oste, loro non osavano fare comande, ma si adeguavano al buon cuore del proprietario. Uscite dal locale però iniziavano i vari elogi o sproloqui per quanto gustato. Parole buone per buon cibo, parole amare per scarsità offerta. A volte accompagnate alla bevanda rossa c’erano delle olive giganti, molto gustose si diceva che venissero direttamente dalla Puglia, poi delle patatine giganti e delle acciughe così forti che avrebbero avuto lo scopo ad invogliare il cliente a fare il bis con evidente vantaggio economico da parte dello stesso locale. Loro però non cedevano quasi mai anzi a quel punto quando in effetti ci sarebbe stato bene un’altro calice loro recitavano la stessa scena. Partiva la più anziana delle due e cioè Zanze:”cosa dici Lola prendiamo un altro bicchiere?”. A quel punto la più giovane e cioè “Lola” si indispettiva e le diceva:”non vorrei mica scherzare, mi gonfierei troppo”. Per la verità il bis non si faceva per ovvi motivi economici. Le due sorelle non potevano certo permettersi il lusso di uscire dal budget preventivato. “Lola” era stata un tempo sposata, ma per la verità di quest’avventura a due non ho mai saputo molto, se non il fatto che nacque Sergio, un mio cugino che per me divenne, per un certo periodo, una sorta di padre dopo la morte del mio quando io avevo 18 anni e avevo finito la maturità a ragioneria.

La visita al sabato mattina era quasi un rito al quale mio papà non rinunciava, era molto legato alle sue più anziane sorelle che praticamente sono state entrambe la sua vera mamma. Lui era il piccolo di casa, lui era quello che aveva studiato e che per questo gli altri della famiglia dovevano lavorare per mantenerlo. Lui era poi l’ufficiale che venne arruolato poco prima della fine della seconda guerra mondiale e nei giorni dello sbarco degli americani si trovava a Barletta proprio per il fatto che parlava inglese bene e avrebbe avuto il compito di accogliere i salvatori.
Le due zitelle, anzi la zitella e la vedova, vivevano in questo appartamento giusto dietro al Liston e dal poggiolo si poteva quasi scorgere l’Arena. Mi ricordo che i soffitti erano altissimi e loro praticamente passavano la giornata in un immenso locale, riscaldato da una stufa a legna che serviva anche per tenere caldi i ferri da stiro, a cucire abiti per le signore. Avevano una buona clientela, un tempo si usava molto farsi fare i vestiti dalla sarta. Mi ricordo in modo particolare di una loro affezionata cliente una certa Anna Fossati. Si diceva fosse un’artista e in modo particolare dipingeva sulla ceramica. Una signora molto distinta alta e con un ciuffo bianco su una criniera nera, un po alla Aldo Moro! Un giorno non si presentò più da loro. Si era lanciata dalla terrazza di casa, soffriva di depressioni. Il fatto ci sconvolse tutti anche se io ero ancora piccolo e certe cose me le nascondevano. Il fatto strano è che riposa giusto sotto la tomba di mio papà e quasi di fronte alle mie due zie.

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