L'effetto molla
Una domenica mattina particolarmente fruttuosa dal punto di vista tecnico. Sarà stata la paella del party della sera precedente condita da una fresca e dissetante sangria; sarà stata l’aria di festa; sarà stata l’atmosfera degli addii; saranno stati i pochi slalomisti sul canale, ma l’allenamento si è dimostrato molto approfondito ed interessante. Abbiamo lavorato sull’effetto “molla” nelle risalite. Di che cosa si tratti cerco di spiegarlo nel miglior modo possibile se pur soggetto ad inevitabili e soggettive interpretazioni.
In sostanza per ruotare velocemente nelle risalite bisogna lasciare la coda libera di agire. La pala in acqua svolge da prima la funzione di timone, per preparare l’entrata, e poi assume il ruolo di fulcro nella rotazione. A questo punto la stessa pala, assolti i compiti precedenti, non deve fare altro che aspettare la conclusione della rotazione per tornare ad essere operativa non più staticamente. In questo frangente di tempo abbiamo la possibilità di caricarci di energia flettendo il braccio alto fino a portarlo praticamente dietro la testa. In fase di uscita l’impulso di spinta partirà proprio dal braccio alto che attiverà così l’effetto molla sopra denominato.
C’è un semplice segreto per ottenere il massimo da questo gesto: rispettare i tempi di esecuzione che sono distinti per ogni singola parte che interviene nell’azione e cioè per braccia, spalle, gambe, canoa, pala. Ognuno di questi elementi ha velocità diverse in tempi diversi. Molto spesso però non è facile da far capire agli atleti che vorrebbero sempre far girare le loro braccia alla velocità con cui il famoso road runner Beep-Beep scappa da Wile Coyote.
L’abbiamo già sottolineato - vi ricordate? - la mente lavora più veloce delle braccia che se non controllate vengono prese dall’euforia di seguire i pensieri che corrono alla velocità della luce.
Per mettere in pratica tutto ciò bisogna avere molta tranquillità e dedicare allenamenti specifici a questo tipo di lavoro. Per qualcuno può sembrare una perdita di tempo, ma in realtà non è così per chi vuole costruire un risultato.
Al di là di tutto ciò volevo anche cercare di rispondere alla mia amica Elena che si chiedeva che cosa succede per le donne in kayak su percorsi aperti com’è stato quello degli “Australian Open” da poco conclusi. Ovviamente dobbiamo ricorrere sempre alle statistiche che ci illuminano che ci dicono che la media nel 2010 su gare di coppa, europei e mondiali per il K1 women era del 17,2 in finale per le vincitrici che si abbassa al 13,5% in qualifica. Corinna Kulne ha vinto in Australia con un distacco poco superiore al 9%. Quindi mi sento di affermare che anche per le donne le percentuali calano su percorsi più aperti. Mi piace definirli da “gigante” come nello sci alpino.
Il motivo di tutto ciò, sempre secondo me, non dipende da quanto espresso da Francesco Iacobelli legato cioè al fatto che la doppia pala “ avrà un utilizzo maggiore, in proporzione, nell'avanzamento rispetto alla ricerca di stabilità, rapportata alla monopala”, ma deriva dal fatto (come ho cercato di esprimere nel post precedente) che: “...sui percorsi chiusi i kayak rischiano moltissimo e riescono a ottenere tempi molto, molto veloci. Tutto ciò deriva anche dall’altissima competitività che c’è in questa categoria. Se poi guardiamo attentamente il gesto tecnico ci accorgeremo che le canadesi hanno occasione di mettere in essere molto più spesso una risalita classica, mentre i Kayak sono costretti a cercare di limare centesimi in ogni azioni e quindi in ogni porta. Ne deriva che su percorsi come quello di Penrith, dove le risalite non presentavano la possibilità di tagliare più di tanto, i tempi di distacco si assottigliano, perché fondamentalmente, visto il livello raggiunto dai top paddlers della canadese, tra le due specialità non c’è un divario molto netto”.
Il mitico Maurizio, che da molti anni non vedo e che immagino scrivere i suoi illuminanti scritti “inginocchiato” davanti al mare all’imbrunire, con folta barba e avvolto da parei colorati, ci ricorda la storia e la ragione per cui si pagaia seduti o inginocchiati. Il fatto di avere pochi top paddlers in C1 e molti di più in kayak esce, secondo me, da un retaggio culturale antico e speriamo superato. Era in uso infatti segare la pala in due e mettere in canadese quei giovani che non dimostravano di aver talento con la pagaia da kayak.
Non concordo con il fatto che la canadese è più complessa tecnicamente. In realtà ritengo esattamente l’opposto specialmente per il suo apprendimento in giovanissima età. La pensavo come Maurizio fino a luglio 2005 momento in cui Raffy, il mio figlio più piccolo classe 1997, è salito sul C1 da discesa di Vladi Panato attratto da quella canoa rossa e ovviamente dalla leggenda vivente di Vladi. In quel momento mi si è aperto un mondo e ho capito, guardando incantato il piccolo C1, che non c’è nulla di più naturale che pagaiare inginocchiati con una pagaia monopala. La possibilità poi, per chi inizia, di concentrarsi su un solo lato e su una pagaia monopala permette di essere più attenti e sensibili allo strumento che ci troviamo fra le mani.
Fatemi spendere una parola però anche per i kayak, se mai ne avessero bisogno. E’ vero che si è seduti, ma ricordiamoci anche che i migliori e più sensibili propriocettori sono proprio lì... Possiamo ricevere un sacco di informazioni che poi trasformiamo, in base alla nostra abilità, in gesti più o meno atletici, eleganti, vincenti, emozionanti!
Occhio all’onda!
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